Quando io ho cominciato a frequentare i seminari, il lavoro si concentrava molto sulle figure genitoriali e sulle emozioni represse (principalmente rabbia, ma anche paura e dolore emotivo) che si provavano nei confronti di queste due figure. Attraverso l’utilizzazione di varie tecniche, che sarebbe opportuno descrivere in modo più dettagliato in una sezione a parte, le persone venivano portate in uno stato di grande eccitabilità emotiva e a quel punto (solitamente il secondo giorno del seminario di primo livello) venivano formati dei cerchi composti solitamente da 20 a 60 o più partecipanti, in cui le persone, che dovevano tenere gli occhi chiusi durante l’esercizio, venivano invitate dalle parole del maestro a ritornare ai tempi della loro infanzia ed immaginarsi piccoli, fra i 3 e i 6 anni circa, davanti ai propri genitori. A quel punto il maestro chiedeva di “guardare” chi c’era vicino a loro e come si sentivano davanti a quella persona. Chi vedeva il padre, chi la madre, chi nessuno e, secondo la predisposizione e la storia personale di ognuno, le persone si mettevano a piangere di dolore o urlare di rabbia di fronte a quei genitori che avevano sentiti lontani, da cui si erano sentiti non protetti ecc ecc, secondo la direzione verso cui la voce e le direttive del maestro li portava. Era senz’altro uno spettacolo impressionante, sia per le persone che vivevano quell’esperienza per la prima volta che per quelle che ripetevano i seminari, vedere tutte quelle persone urlare con rabbia, rosse in viso, invettive contro i propri genitori o piangere disperate con singhiozzi irrefrenabili invocandoli spaventati, e questo spettacolo facilitava senz’altro l’espressione emotiva dei singoli partecipanti. Io sono convinto che non esistano genitori perfetti, come non esistono figli perfetti, e che ognuno di noi abbia vissuto nell’infanzia episodi frustranti o dolorosi nella relazione con i propri genitori. Sicuramente, trovarsi in una situazione come quella che ho descritto, e che come me hanno visto e vissuto in tanti durante i seminari, dà alle persone lo stimolo per esprimere emozioni che di solito si tende a reprimere nella vita quotidiana, ma che non sono necessariamente riconducibili al comportamento “cattivo” dei propri genitori durante l’infanzia. Però il livello di eccitabilità e credulità emotiva dei partecipanti diventa talmente alto, in una situazione del genere, che è molto facile pilotare le loro convinzioni circa l’origine delle forti emozioni che sentono emergere guardando quel tipo di spettacolo (credo che esistano anche diversi studi in campo psicologico su questo argomento e mi piacerebbe conoscere qualche titolo). Questi “sblocchi” emotivi venivano spesso e volentieri pilotati e indirizzati dal maestro verso la rabbia o il dolore emotivo (secondo quello che lui intuiva fosse più appropriato per la persona e sottolineo la parola “intuiva” perché non ha mai fornito spiegazioni riguardo ai criteri che lo portavano a propendere per un’emozione o per l’altra, se non un vago “collegamento e sintonia con lo spirito” che guidava le sue parole o azioni) attraverso varie tecniche. Per esempio, quando c’era una persona che presentava uno stato emotivo piuttosto eccitato, il maestro le diceva di chiudere gli occhi (a volte, prima le chiedeva se voleva andare a fondo nell’emozione che stava vivendo, a volte no) e metteva davanti a lei un’altra persona, maschio o femmina secondo i casi, e diceva alla persona con gli occhi chiusi “Hai davanti a te tua madre/tuo padre”. A queste parole, varie erano le reazioni di chi aveva gli occhi chiusi: a volte si metteva a singhiozzare più convulsamente, a volte urlava “No…NO…” a volte si immobilizzava ecc. A quel punto, il maestro cominciava a parlare nell’orecchio della persona che aveva messo davanti a quella con gli occhi chiusi e le suggeriva di fare o dire cose. A volte capitava che le dicesse di abbracciare forte e senza mollare la presa la persona con gli occhi chiusi sussurrandole all’orecchio le frasi che lui riteneva fossero più adatte a farla “andare profondamente nel suo processo”. Queste frasi erano abbastanza semplici e stereotipate: “Ti ho sempre voluto bene”, “Non ti ho mai amato”, “Scusami per esserti stata/o lontana/o”, “Ho sempre preferito Tizio o Caio a te”, “Scusami per non averti protetto”, per citare quelle che mi vengono in mente adesso.A volte il maestro evitava che vi fosse un contatto fisico fra le due persone e suggeriva a quella con gli occhi aperti quello che doveva dire o urlare a chi aveva davanti con gli occhi chiusi.Come si può facilmente intuire, si assisteva a scene molto forti, dal punto di vista emotivo. Le persone con gli occhi chiusi, la maggior parte delle volte urlavano e piangevano e sputavano, ma in alcuni casi si mettevano anche a tirare calci e pugni a chi avevano davanti ed era ammirevole vedere come quasi tutti i poveretti che ricoprivano il ruolo di genitore destinatario di quelle manifestazioni di rabbia fisica sopportavano stoicamente le percosse “per il bene dell’altro”.Certo, se la violenza fisica minacciava di diventare troppo incontrollabile, un gruppetto di volontari immobilizzavano la persona in preda a quel “processo di rabbia” e le permettevano solo di urlare finchè non si calmava. Spesso, durante questi exploit emotivi, ho visto il maestro premere la mano sulla bocca dello stomaco della persona con gli occhi chiusi per “aiutarla” ad andare più a fondo nell’emozione. Aggiungo, per chi non lo sapesse o non ne avesse avuto personalmente esperienza, che in quei momenti di grande eccitazione emotiva, la bocca dello stomaco si sente pulsare fortissimo e se qualcuno vi esercita sopra una pressione, come minimo viene da urlare. Lo so per certo perché anche a me è capitato di trovarmi in quella situazione, durante seminari o intensivi cui ho partecipato.Quando, dopo ore, le emozioni dei partecipanti si erano un po’ placate ed eravamo tutti più o meno stravolti dalla stanchezza e spossati da quell’esperienza emotiva intensissima, il maestro cominciava il lungo discorso di spiegazione di quanto era avvenuto, in cui esponeva la sua teoria (chiaramente non presentata come sua teoria ma come dato di fatto) circa le cause che avevano portato le persone a provare e reprimere, nel corso della loro vita, emozioni così intense:Alla nascita, il bambino è naturalmente giusto e retto, ma deve presto cominciare a confrontarsi con un mondo che tanto giusto e retto non è. Proprio dai genitori arrivano le prime delusioni in quanto è in famiglia che la maggior parte delle persone entra per la prima volta a contatto con:1) forme di comunicazione non sane: i cosiddetti “doppi messaggi” che hanno come scopo il creare confusione in chi ne è il destinatario e in questo modo renderlo facilmente manipolabile per piegarlo ai propri scopi. Durante i primi anni in cui ho frequentato questo gruppo, i primi esseri a propinare all’innocente creatura questi doppi messaggi erano entrambi i genitori; successivamente, è diventata prerogativa della madre. Verso la fine del 2000, infatti, l’uomo, nel suo ruolo di padre, cominciava a venir presentato come una specie di santo mentre la donna, e in particolare la donna nel suo ruolo di madre, veniva presentata come la summa di tutte le umane perversioni e causa prima del dolore e del fallimento della vita dei figli nonché dei mariti.Un esempio di doppio messaggio è il cominciare un discorso lodando una persona per qualcosa, continuando poi con una critica alla stessa (tipo: tu sei molto intelligente ma fai delle cose da stupido, oppure: ti voglio tanto bene ma non ti sopporto perché…..).2) forme di menzogna, inganni e sotterfugi che minano la fiducia del bambino nel genitore quando le scopre. (Non bisogna mai mentire ai figli, e su questo sono d’accordo! Ma credo che sia necessario raccontare loro la verità in modo equilibrato – mio commento).3) creazione del senso di colpa nel bambino attraverso varie tecniche, che ha come scopo quello di legare a sé i figli impedendo loro di essere liberi. In genere prerogativa della madre, anche se non si escludeva un uso del senso di colpa da parte del padre. Le frasi che venivano indicate come le più frequenti a far sorgere sensi di colpa nei figli erano: “Con tutto quello che ho fatto per te…” “Non vedi come soffre la tua povera mamma/zia/nonna ecc.” “Quando sarò morta allora vedrai/capirai…”, “Se continui così mi farai ammalare” “Se fai così fai piangere la tua povera mamma” ecc. ecc. 4) eredità del dolore della madre: (questo soprattutto per le figlie) la madre che lega a sé i figli attraverso una forma di vittimismo continuo e fornisce loro l’immagine costante di una donna che soffre, il più delle volte a causa del marito/padre del bambino, e in questo modo trasmette una visione distorta della vita e della relazione di coppia che è fatta di dolore e sacrificio. Questa “eredità di dolore” viene trasmessa di madre in figlia, di generazione in generazione. Se una donna non riesce ad essere felice, e non riesce a portarne a coscienza il motivo, sa dove andare a trovare l’origine di questa infelicità e chi ringraziare per questo.Nei comportamenti dei genitori venivano quindi rintracciate le cause dell’impossibilità delle persone ad essere libere e felici. Per riuscire a raggiungere libertà e felicità bisognava riconoscere queste emozioni represse “attraversandole consapevolmente”, (vale a dire ri-vivendole) e sbarazzarsi delle “eredità perverse” trasmesse in vario modo dai genitori e dalle famiglie di origine in genere. Questo si poteva fare in parte durante i seminari, ma vi era ed è un “lavoro” molto più profondo sulle emozioni che si può fare negli intensivi o, come si chiamano ora, seminari residenziali o walking the path o come diavolo sono stati rinominati (anche qui, cambia il nome ma non la sostanza).Non bisogna dimenticare, però, che in quegli anni molto spazio ed importanza veniva dato al Reiki, una forma di “energia intelligente” di origine divina che attraverso le iniziazioni praticate nei seminari dal maestro cominciava a fluire liberamente dalle mani degli iniziati. Questa energia non solo, veniva affermato, può guarire il corpo fisico ma, proprio passando attraverso il corpo fisico durante i trattamenti, ha la capacità di guarire il corpo emotivo facendo emergere le emozioni represse che hanno causato la malattia. Le emozioni represse venivano indicate, allora, come la causa di tutti i mali fisici e psichici. La loro azione, veniva spiegato nei seminari, non si limita alla realtà corporea della persona ma può trasferirsi agli eventi che capitano nella vita. Un’emozione repressa che non trova sfogo nel corpo trasformandosi in malattia, può dare luogo ad eventi incontrollabili che si ripetono nella vita con una certa frequenza (può essere il caso di chi viene di frequente derubato del portafoglio, o che viene spesso tamponato in macchina ecc), oppure attira verso la persona tutta una serie di individui e situazioni che hanno lo scopo di portarla a rendersi conto che sta reprimendo quell’emozione. Per fare un esempio, se uno aveva della rabbia repressa nei confronti di una figura maschile o “aveva un processo” con l’autorità, vi erano buone probabilità che avesse mal di fegato (il fegato è uno degli organi più disponibili ad accogliere la somatizzazione della rabbia, oltre al fatto che si trova nella parte destra del corpo che è legata al maschile/autorità) oppure poteva esser vittima di incidenti d’auto che andavano a danneggiare la parte destra della macchina, oppure poteva continuare ad attirare gente arrabbiata che interagiva con lui in modo antipatico, tale da far scattare la sua rabbia ecc.Non voglio qui entrare nel merito dell’inconscio e della sua capacità di creare situazioni o malattie perché non è l’argomento del mio intervento. Certo è che le cose venivano presentate in un modo tale per cui uno credeva davvero che, sbloccando le emozioni represse sarebbe riuscito ad avere una forma di controllo sulla sua vita e sugli eventi. Si arrivava a credere che le malattie potessero venire debellate attraverso i trattamenti di reiki (anche se non ho mai sentito dire esplicitamente che una persona non dovesse curarsi attraverso la medicina ufficiale o abbandonare le cure che stava facendo; ho sentito invece dire molte volte che si poteva fare un trattamento di reiki alle medicine e questo avrebbe avuto un’azione sugli effetti collaterali: non ce ne sarebbero stati se la medicina era quella giusta, si sarebbero amplificati se la medicina non fosse stata adatta a quella persona) e il lavoro sulle emozioni e si arrivava anche a credere che, con i trattamenti di secondo livello, si potessero influenzare gli eventi: il trattamento fatto ad una situazione per mezzo dei simboli che venivano “impressi” sulle mani degli studenti durante l’iniziazione di secondo livello, aiutava a far emergere, a livello emotivo o fisico o attraverso altri eventi collegati alla situazione che si stava trattando, le vere motivazioni psicologiche che spingevano o legavano una persona alla situazione “trattata”.Per fare un esempio, se si era stati lasciati dalla fidanzata/o e si voleva tornare insieme, si poteva fare il trattamento alla relazione con lei/lui e questo avrebbe fatto emergere in modo chiaro i motivi che avevano fatto sì che la relazione non funzionasse, motivi che potevano venire risolti, se questo era “giusto” o amplificati se non lo era (il reiki, veniva affermato, è un’energia “intelligente” che porta le cose a svilupparsi verso una direzione o l’altra seguendo le direttive dell’intelligenza divina, quindi, qualsiasi risultato sortisca il trattamento, esso è sempre valido, anche se non se ne capisce la ragione). Ci si poteva quindi rimettere insieme o si poteva venire addirittura trattati in malo modo dall’ex, se questo è quello che “doveva succedere” per farci capire qualcosa.Si può ben notare come, partendo da questi presupposti, il maestro può dare sempre e comunque un’interpretazione strumentale della realtà interpretando gli eventi a suo uso e consumo, in quanto viene sempre sottolineato che i risultati del trattamento si sviluppano secondo il volere di una non meglio precisata “intelligenza divina” che, nella sua manifestazione, è ben lungi dal seguire una logica “umana”. Ecco così che, avendo il maestro sempre pronta una bella interpretazione di quello che succede alle persone, egli diventa interprete indiscusso del “volere divino”, almeno per tutte quelle persone che hanno bisogno di trovare risposte e spiegazioni facili davanti agli eventi della vita e ai loro moti interiori.Spesso ci si trovava anche proiettati in un mondo magico dove fare i trattamenti di reiki alle cose aveva i poteri più svariati: si andava dal ricaricare le pile, al trovare parcheggio, al liberare un oggetto regalato dalla vecchia zia perversa e manipolatrice dalla sua infausta influenza e chi più ne ha più ne metta. Si potrebbe aprire un’intera sezione del sito del Cesap solo per raccogliere tutte le astrusità che sono state propinate dal maestro e dai suoi maestri sugli effetti dei trattamenti di secondo livello in quegli anni. E più il maestro ne raccontava e più gli studenti ne aggiungevano creativamente. Certo è che più si è portati in uno stato di eccitazione emotiva, più si è disposti a credere alle peggio fregnacce. E se riesco a credere che tracciando il primo simbolo di reiki troverò sicuramente un parcheggio in centro, posso anche credere che i miei genitori e la loro perversione sono la causa prima della mia infelicità e del fallimento della mia vita. Ricorda niente la parola “capro espiatorio”?Nei seminari, in quegli anni, veniva dedicato ampio spazio ai trattamenti e alla spiegazione di come e dove le emozioni represse potevano andare a creare danni, sia a livello fisico che negli eventi della propria vita. E venivamo tutti vivamente consigliati di farci trattamenti su trattamenti perché “ogni volta che si completa un ciclo di trattamenti (4) si fa automaticamente un salto di qualità a livello di consapevolezza: le emozioni represse emergono alla coscienza, devono venire riconosciute e la situazione originaria che le ha create e fatte reprimere può venire risolta, così non andranno a creare più disagi nel corpo fisico o nella vita.Per quanto riguarda il lavoro sulla comunicazione, veniva introdotto durante il seminario di secondo livello e utilizzato negli intensivi.Si lavorava sulla comunicazione per avere relazioni chiare e oneste con gli altri e, a questo fine, si lavorava per comprendere le proprie “risposte automatiche” agli stimoli che venivano dall’esterno. Durante i seminari di secondo livello venivano spiegate le 4 forme base della comunicazione: risentimento – se si esprimeva rabbia pura perché non si era stati ancora in grado di elaborarla e di capire cosa, effettivamente, l’aveva scatenata (in questa fase, a stimolo corrisponde risposta automatica)giudizio – se si sentiva ancora rabbia ma si era riusciti ad individuare che cosa, nell’altro sembrava non andasse o infastidiva (in questa fase c’è sempre una risposta automatica ma anche la coscienza, da parte di chi esprime il giudizio, che quello che sta dicendo può essere in certo modo una sua proiezione sull’altro. Non sempre, però. Il giudizio veniva anche usato per dare all’altro dei feedback che lo aiutassero a vedere e portare a coscienza una parte di sé.)condivisione – se si riconosceva che quello che si muoveva a livello emotivo era qualcosa che ci apparteneva e che l’altro, con il suo comportamento o atteggiamento che ci ricordava il nostro, ci aveva permesso di riconoscere (riconoscimento della propria proiezione sull’altro)apprezzamento – se c’era una qualità o capacità che si riconosceva nell’altro, a volte si poteva anche condividere che la si sarebbe voluta acquisire.Durante i seminari di secondo livello la comunicazione doveva avvenire attraverso queste forme. Se qualcuno aveva qualcosa da dire al gruppo si doveva inginocchiare davanti a tutti, all’interno del cerchio, prendere in mano una sfera di pietra e cominciare dicendo il suo nome e “voglio condividere che…”. Se qualcuno aveva qualcosa da dire ad un’altra persona doveva inginocchiarsi davanti a questa, che a sua volta si doveva inginocchiare, e cominciare con (secondo i casi) “io risento/il mio giudizio è/ti voglio condividere che/io apprezzo di te…”In linea di massima, negli anni Novanta, il lavoro consisteva principalmente nel liberarsi, attraverso lo “sblocco emotivo” delle due emozioni maggiormente represse nell’infanzia: rabbia e paura. Questo veniva fatto in modo molto violento durante GLI INTENSIVI. Durante i 5 o 6 giorni dell’intensivo, ben 3 giorni venivano dedicati ad esercizi volti a portare lo studente davanti a queste due emozioni represse. Varie tecniche psicologiche venivano (e probabilmente vengono ancora) utilizzate dal maestro di questo gruppo per creare nelle persone il “clima psicologico” adatto allo sblocco di queste emozioni. Si comincia col cercare un oggetto che possa rappresentare la propria paura e la propria rabbia e si fanno dei piccoli gruppi, chiamiamoli di “auto-coscienza” in cui, solitamente sotto la guida di uno dei maestri che partecipano a quell’intensivo o di persona di fiducia del grande maestro (che nomina personalmente i conduttori di questi gruppi – e che grande riconoscimento è questo… non ve lo potete immaginare finchè non lo provate!) a turno si dà la propria interpretazione del perché quegli oggetti rappresentino per la persona in questione rabbia e paura. Il lavoro fatto all’interno di questi gruppi comincia a focalizzare le persone su queste due emozioni e prepara il terreno ad un altro lavoro, molto violento a mio parere sia dal punto di vista emotivo che psicologico, che viene svolto nella fase successiva.
Tiresia
- continua -